Come provare il mobbing? Chi deve risarcire il lavoratore?

Una risposta alla domanda è offerta  dalla Cassazione

(cfr. Cass. Civ., Sez. Lav. 15 maggio 2015, n. 100037)

  1. Il mobbing: definizione e conseguenze sulla salute del lavoratore

Con il termine mobbing si definisce il comportamento consistente in una serie di atti, lesivi della dignità professionale e umana del lavoratore che unitamente considerati hanno lo scopo di perseguitarlo per emarginarlo e spingerlo a lasciare il proprio posto di lavoro.

Il mobbing dunque deve necessariamente consistere in una serie di atti da considerare nel loro complesso aventi lo scopo ultimo e univoco di spingere il lavoratore a rassegnare le dimissioni.

La Cassazione ha chiarito che il mobbing sussiste ove la condotta perpetrata dal c.d. mobber abbia i caratteri della sistematicità, sia protratta nel tempo e tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, risolvendosi in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (cfr. Cass. civ., Sez. Lavoro, 10 gennaio 2012 n. 87).

Tale fenomeno ha purtroppo delle gravi conseguenze sulla salute mentale e fisica del lavoratore che lo subisce. Le vittime di mobbing sono spesso soggette a gravi patologie fisiche o psichiche. Tali disturbi costituiscono dei gravi danni alla salute (fisica o psichica) del lavoratore che in quanto tali obbligano chi li ha commessi a risarcirli.

I danni risarcibili sono di natura patrimoniale e non patrimoniale. In particolare, fra i danni patrimoniali rientrano le spese sostenute per le cure mediche necessarie alla patologia. Nella voce danno non patrimoniale rientrano generalmente il danno alla salute del lavoratore, il danno esistenziale, il danno alla vita di relazione.

  1. I parametri di riconoscimento del mobbing alla luce di una recente pronuncia della Cassazione

Per ottenere il risarcimento dei danni da mobbing il lavoratore dovrà agire in giudizio nei confronti del proprio “persecutore”, fornendo al giudice la prova degli atti vessatori. Le condotte potranno consistere in comportamenti materiali ovvero provvedimentali del mobber e ciò indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Sul punto la giurisprudenza ha chiarito che “la sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, delle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato” (cfr. Cass. civ., Sez. Lavoro, 6 marzo 2006, n. 4774).

La Cassazione in tempi recentissimi si è occupata di una vicenda relativa a una dipendente comunale alla quale erano state sottratte le proprie mansioni, che era stata trasferita presso un ufficio aperto al pubblico senza plausibili ragioni, si trovava costretta a subire l’umiliazione di essere sottoposta ad un funzionario che prima era a lei sottoposto. La signora aveva subito una lenta e costante emarginazione dal contesto lavorativo. Tale situazione aveva provocato alla lavoratrice una psicosi paranoide, disturbo del quale la signora non aveva mai sofferto in passato (cfr. Cass. civ., Sez. Lav, 15 maggio 2015, n. 10037).

La Suprema Corte confermando le pronunce di primo e secondo grado ha ritenuto ravvisabile la condotta di mobbing in quanto sussistenti tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing.

Tale pronuncia è molto significativa in quanto riepiloga i caratteri che secondo la giurisprudenza devono sussistere per ritenere configurabile una fattispecie di mobbing

In particolare:

  1. la condotta mobbizzante deve realizzarsi nel contesto lavorativo in modo continuativo e protratto nel tempo, deve dunque svilupparsi in un arco di tempo apprezzabile (non si ravvisa mobbing risarcibile se le condotte vessatorie e persecutorie non presentano i requisiti della frequenza costante in un arco di tempo sufficientemente esteso, frequenza che può essere determinata in almeno una volta alla settimana in un arco temporale di almeno sei mesi);

  2. gli atti persecutori non devono essere episodici, ma reiterati e molteplici;

  3. deve trattarsi di più azioni ostili (almeno due di queste);

  4. la condotta deve estrinsecarsi in attacchi alla possibilità di comunicare, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni lavorative, attacchi alla reputazione, violenze o minacce;

  5. necessità di dislivello tra gli antagonisti (mobber e mobbizzato), con l’inferiorità manifesta del lavoratore mobbizzato;

  6. la vicenda deve procedere per fasi successive come: conflitto mirato, inizio del mobbing, sintomi psicosomatici, errori e abusi, aggravamento della salute, esclusione dal mondo del lavoro

  7. necessità dell’intento persecutorio ovvero un disegno premeditato per tormentare il dipendente e spingerlo a lasciare il proprio posto di lavoro.

Sebbene non sia stato l’ente Comunale ad attuare le condotte di mobbing nei confronti della dipendente, ma un funzionario del medesimo ente, la Cassazione ha esteso a quest’ultimo, in qualità di datore di lavoro, la responsabilità e la conseguente condanna al risarcimento dei danni patiti dalla lavoratrice mobbizzata.

Questo il ragionamento della Corte “né il Comune poteva essere scriminato dal danno arrecato alla lavoratrice giacché la circostanza che la condotta di mobbing provenga da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all’art. 2049 c.c., ove questo sia rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo (…). La durata e le modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta dalle prove testimoniali, sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, nonché organo politico, che l’ha comunque tollerata

Il datore di lavoro dunque potrà essere ritenuto responsabile dal giudice in tutti i casi in cui si riesca a provare che ha colpevolmente omesso di rimuovere la condotta lesiva del proprio dipendente mobber nei confronti della vittima.